Vino senza alcol, il made in Italy storce il naso, ma quanto potrebbe valere il mercato? Mentre l’Europa prende decisioni non ci resta che valutare rischi e opportunità
Il vino senza alcol può chiamarsi vino? Ci sono molte perplessità in Italia, che si scontrano con secoli di tradizione ed anche con l’attuale legislazione (Testo Unico del Vino L. 238/2016) che definisce il vino come “il prodotto ottenuto esclusivamente dalla fermentazione alcolica totale o parziale di uve fresche, pigiate o no, o di mosti di uve”.
Del resto, la parola vino presuppone una serie di vincoli, condizionamenti ed eredità produttive e culturali, dove la gradazione alcolica dipende, prima di tutto, dal territorio e dalla vendemmia.
Nella nuova Pac l’Unione Europea ha richiesto di regolamentarne la produzione, dato che per il momento esiste un vuoto legislativo.
Sono diversi i motivi per cui il vino senza alcol, ovvero il vino dealcolato potrebbe rispondere a delle opportunità: potrebbe aprire il mercato al Medio Oriente, dove per motivi religiosi è vietato l’alcol, ma anche ai cosiddetti paesi salutisti, come la Nuova Zelanda, Australia e Nord Europa. Senza contare che potrebbe risolvere in molti paesi i problemi che legano adolescenti e alcolismo. A prescindere da tutte le opportunità, la domanda di vino analcolico è in forte crescita. Solo che non è facile da quantificare, proprio perché non esiste una regolamentazione unica. Di fatto però ci stiamo abituando lentamente già alla birra analcolica, e addirittura al gin analcolico.
Cosa succede se l’Europa autorizza il vino de alcolico o senza alcol?
Il Consiglio dell’Unione Europea ha inserito, nel corso dei negoziati di Bruxelles per definire la nuova PAC (Politica Agricola Comune) la richiesta agli Stati membri di giungere entro il 2023 alla specifica regolamentazione della dealcolazione del vino. I produttori di vino italiani, francesi e tedeschi sono assolutamente contrari, ma lo stesso non sembra dirsi per alcuni dei rappresentanti politici che hanno in Parlamento Europeo (italiani naturalmente esclusi). Sono soprattutto i paesi del Nord Europa a sostenere la proposta di vino dealcolato, con l’intento di scongiurare gli effetti dell’assunzione eccessiva di vino. Gli stessi che suggerivano di apporre etichette “alert” con “health warnings” sulle bottiglie di vino, come avviene per le sigarette. Proposta che fortunatamente, lo scorso febbraio, non ha ricevuto il consenso parlamentare. Ovvio che sono paesi in cui non si può certo vantare una cultura e una tradizione radicata di vino. Il via libera della de alcolizzazione del vino potrebbe far godere, anche per la categoria vino analcolico, dei nomi e della protezione delle Denominazione di Origine Controllata, e di Indicazione Geografica Protetta, o peggio ancora, la dealcolazione di vini di gran pregio Doc e Igp già famosi.
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Il vino fa male?
La salute non si tutela eleggendo un intero comparto o un singolo prodotto come dannoso per la salute. Ce lo insegna la Dieta Mediterranea, per la quale vale il principio che tutto fa bene in quantità moderata. Una regola aurea che rende la cultura del cibo Made in Italy un esempio per il mondo. Oltretutto un nuovo studio rileva che il consumo moderato di vino, ricco di flavanoli, può migliorare la salute del cuore. Il vino è un prodotto che va difeso. Stefano Patuanelli, Ministro delle Politiche Agricole, ribadisce il concetto: “il vino è un prodotto che più di ogni altro contiene cultura, tradizione ed eccellenza e questo non è qualcosa di scollegato dalla salute. Contro i tentativi dell’Europa di introdurre etichette allarmistiche sul vino tutte le forze politiche e le associazioni di categoria hanno remato unite in una stessa direzione. Come per il Nutriscore, si tratta di una battaglia importante che ha come obiettivo la tutela di tutti i consumatori e non solo dei produttori”. Proprio quel Nutriscore che vorrebbe che sul vino ci finisse una lettera F accerchiata da un bollino nero. Scelta impensabile perché slegata dalle modalità o occasioni di consumo, e che è stata definita dalla presidente di Federvini, Micaela Pallini “un affronto all’intelligenza dei consumatori”.
Insieme alle altre eccellenze del comparto food del Made in Italy, non può essere assolutamente demonizzato.
Il punto di vista italiano
Mentre il Consiglio Europeo ha giustificato la richiesta con il fatto che i prodotti “alcohol-free” possono rappresentare un’importante opportunità di mercato per il settore vitivinicolo dell’UE, e con la necessità di regolamentare un settore già attivo, aleggia per il vino Made in Italy, il ragionevole dubbio che sia il termine vino, associato al senza alcol, a creare ambiguità e disinformazione. In effetti, diverse associazioni sono d’accordo a regolamentare il settore, che sarebbe in questo modo soggetto ai controlli, al registro telematico e a tutti gli altri obblighi della produzione, dando anche prova che la legislazione vitivinicola sia avanzata e comprensiva di sfumature. Ma produrre vino vuol dire produzione agricola, mentre dealcolizzarlo equivale a privarlo delle pratiche agricole e a ridurlo a semplice ricetta. Sarebbe più corretto, a questo punto, chiamarlo bevanda ottenuta da uve o da vino.
Insomma, l’unica cosa certa è che per gli italiani un vino analcolico non può chiamarsi vino.
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