In Cina anche nella ristorazione si torna lentamente alla normalità ma dopo il coronavirus la vita non è più la stessa. Strade ancora semivuote, mascherine obbligatorie per recarsi ovunque, distanziamento sociale da osservare ancora rigorosamente.
I ristoranti sono aperti in moltissime zone, ma sono abbastanza vuoti come del resto i centri commerciali. Nelle ultime settimane i lavoratori cinesi hanno imparato a portarsi il cibo da casa. I dati del commercio online, ancora costanti, confermano che l’idea di ripartire in fretta è al momento smentita dalla realtà.
Le ragioni di questa falsa ripartenza nel settore della ristorazione vanno ricercate sia nelle restrizioni imposte al ristorante, sia sulla paura dei cinesi di spendere troppi soldi. Milioni di persone hanno perso il lavoro e molti di più hanno subito dei tagli allo stipendio. In alcune città, come ad esempio ad Hong Kong, dove sono di nuovo aumentati i contagi, i ristoranti sono stati costretti a richiudere, e anche questo crea instabilità e non aiuta.
Le nuove rigide misure di prevenzione per i ristoranti (capacità ridotta di almeno il 50%, mascherina obbligatoria, misurazione della temperatura all’ingresso, registro ingresso e uscita dal locale, distanziamento tavoli e sedute laterali-non frontali) stanno scoraggiando molti cinesi dall’andare a cena fuori.
Con le debite differenze tra popoli diversi, questo scenario dovrebbe far riflettere circa alcuni facili entusiasmi, immaginando una ripartenza sprint, e ricollocare il riassetto dei flussi nella ristorazione su un arco temporale più lungo. Il futuro della ristorazione è tutto da riscrivere. Per questo motivo è indispensabile che il Governo aiuti le imprese della ristorazione italiana per un lungo periodo anche dopo il picco del Coronavirus.
Il mercato della ristorazione italiana (bar, ristoranti, pizzerie, tavole calde), secondo la FIPE, vale 86 miliardi (dati 2019). Sono 336.000 le imprese della ristorazione attualmente attive, di cui 148 mila bar. È il terzo più grande in Europa, dopo quelli di Gran Bretagna e Spagna e che ha ricadute positive sull’intera economia italiana e in particolare sulla filiera agroalimentare. Ogni anno, infatti, la ristorazione acquista prodotti alimentari per un totale di 20 miliardi di euro, andando a creare un valore aggiunto superiore ai 46 miliardi, il 34% del valore complessivo dell’intera filiera agroalimentare, che risente di questa mancanza ed ha bisogno di un aumento dei consumi interni, anche a causa delle assurde restrizioni imposte da alcuni paesi esteri.
In questo periodo, secondo i dati di Fipe – Confcommercio il settore sta registrando perdite per 50 milioni di euro al giorno. Il comparto della ristorazione si mobilita lanciando un unico appello al Governo e alle Istituzioni sottoscritto da 19 realtà associative. Tra l’altro, per effetto di contraddittorie decisioni regionali, si assiste all’applicazione di ulteriori restrizioni, come il divieto dell’asporto in Campania, che aggrava ulteriormente la crisi.
In attesa dei rapidi e concreti provvedimenti, andrebbe ricordato al Governo che il mondo della ristorazione è un grande asset della nostra economia e un patrimonio, anche culturale, del Paese. E vale come il settore industriale.
Come sottolinea il presidente di Fipe, Lino Enrico Stoppani, “la ristorazione è un settore che occupa oltre un milione di addetti e che rischia di lasciare a casa oltre 40.000 persone per impossibilità di retribuirle. Occorre far presto perché l’emergenza sanitaria rischia di far saltare il banco e se chiudono le nostre attività, chiudono le luci che animano le città e si perde un patrimonio di socialità e di servizio, simbolo dello stile di vita italiano e fattore decisivo di attrazione turistica”.
Un danno incalcolabile che il nostro paese non può permettersi.
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