Le proteste dei pastori sardi per il crollo del prezzo del latte ovino rischiano di arrivare ad un punto morto. Se non comprendiamo quali sono i veri problemi del pecorino sardo non possiamo concentrarci sulle soluzioni
Il pecorino sardo è in crisi, i magazzini sono pieni e continuano le proteste degli allevatori sardi per il prezzo del latte di pecora che è sceso a 0.60 cent/litro, al di sotto del costo di produzione che si attesta a 0,70 centesimi al litro. Il colpevole è il mercato, ma ha diversi complici.
Questa congiuntura non deve farci pensare ad un problema circoscritto alle oltre 12.000 famiglie di allevatori sardi, ma ad una grave crisi dell’intera filiera ovina da latte che sta mettendo a dura prova l’esistenza di un comparto produttivo fondamentale per la Sardegna, con un indotto superiore ai 100.000 posti di lavoro.
La questione va inquadrata non solo da un punto di vista economico ma anche culturale e sociale. Parliamo dell’aspetto identitario che questa attività rappresenta per il territorio sardo: la Sardegna è l’isola delle pecore da latte e dei suoi pastori, un ulteriore valore aggiunto al prodotto finale con una grande valenza turistico-culturale.
Perché sono crollati i prezzi del latte di pecora ?
La risposta è semplice. Sono diminuiti i consumi interni, ma soprattutto sono crollate le esportazioni (-33%), soprattutto quelle verso il mercato di riferimento del Nord America, dove il calo dell’export ha raggiunto il 44%. Nel contempo c’è stato un eccesso di produzione: la quantità di pecorino romano che il mercato era in grado di assorbire è di 280 mila quintali, ma l’industria casearia ne ha prodotti 340 mila.
I magazzini ora sono pieni e le quotazioni del Pecorino Romano all’ingrosso sono precipitate del 30%, dai 7,5 euro di febbraio dello scorso anno ai 5,5 euro al kilo di oggi. Quindi, di conseguenza, per la legge fondamentale dell’economia (domanda e offerta), il prezzo della materia prima è crollato.
Sul fronte esportazione c’è uno sbilanciamento importante. Secondo i dati Ismea, il pecorino romano, è destinato per il 42% agli Stati Uniti, per il 39% all’Italia e per il 12% a Paesi dell’Unione Europea e 7% a paesi extra Ue. L’Italia è stata al 1°posto per l’export di Pecorino tipo Romano verso gli USA col 53% di incidenza nel periodo Gennaio-Novembre 2017. Purtroppo quasi nessuno si è accorto che i dati del 2018 dimostravano un calo progressivo mese su mese, circostanza che doveva imporre un cambio di strategia o di fermare la macchina. Nei primi 10 mesi del 2018 l’Italia, secondo i dati l’Istat, ha esportato il 46 per cento in meno di pecorino romano rispetto al 2017.
Perché gli Stati Uniti acquistano meno Pecorino Romano?
Forse prima di rispondere a questo quesito, dovremmo rispondere alla domanda: che uso ne fanno gli americani del pecorino romano?
Storicamente il pecorino viene importato dagli USA come un semilavorato per essere grattugiato e mescolato ad anonime bustine di formaggio locale per dargli sapore. Visto che gli americani vanno matti per il cheese, ovviamente viene impiegato nella preparazione dei pasti pronti da microonde e miscelato ad altri formaggi per il topping di pizze industriali surgelata di ogni tipologia e forma.
Questo impiego ha di fatto relegato il pecorino ad un ruolo di commodity ed ha favorito la concorrenza sleale dei produttori di falso pecorino Made in Italy, quello italian sounding, commercializzato con fantasiosi nomi come Roman Cheese, Romanella, Pecorina, etc., con un prezzo inferiore. Oltre che dagli storici produttori di formaggio del sud America, l’Italia è stata scalzata anche da alcuni paesi europei che hanno visto una crescita delle esportazioni verso gli USA. Ma la vera novità è la crescita dei produttori locali americani, con il pecorino italian sounding del Tennessee e Wisconsin.
Di recente ci sono stati diverse iniziative per promuovere il pecorino da “commodity” a “speciality cheese” come avviene per il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano. Come l’iniziativa chiamata i 3 Pecorini (dall’unione dei Consorzi del Pecorino Sardo, Pecorino Romano e Fiore Sardo). E questo ha consentito in minima parte al pecorino romano di conquistare la dignità di formaggio da tavola, adeguando anche il prezzo al consumatore finale. Nel frattempo una nuova sensibilità verso cibi salutari, a basso contenuto di sale, sta creando un nuovo problema. Negli USA la Food and Drug Administration (FDA) ha riacceso i riflettori sui formaggi a latte crudo. In particolare su quei formaggi che hanno un elevato contenuto di sodio. Il Pecorino Romano arriva ad una percentuale di sale anche del 6,5%. Basti pensare che altri formaggi (ma a pasta vaccina) come Grana Padano, Parmigiano Reggiano e Pecorino Toscano difficilmente superano il 2% di cloruro di sodio nella composizione generale del prodotto.
Eppure qualcuno aveva già lanciato l’allarme l’anno scorso…
Il Centro Studi Agricoli a settembre 2018 aveva lanciato l’allarme: “le produzioni di Pecorino Romano Dop nel mese di luglio pare risultino maggiori di circa il 100% delle produzioni dello stesso mese di luglio 2017. Da questi dati, emerge una situazione di forte criticità nell’intera filiera, aggravata dalla diminuzione delle vendite del prodotto verso il mercato Statunitense e con un prezzo dello stesso pecorino romano Dop in continuo calo“.
Il CSA aveva fatto una profezia che si è purtroppo avverata: “Una situazione se non gestita nelle dovute attenzioni da parte della Regione e da parte di tutti gli attori della filiera del latte di pecora rischia di travolgere in modo irreversibile sia il settore produttivo del latte (allevatori) sia il mondo della trasformazione (caseifici, industriali e Cooperative). Il rischio è quello di andare incontro a una seconda crisi, dopo quella del 2016, dove le aziende agricole di allevamento sarde non sarebbero oggi più nella condizione di affrontare e di superare, con un prezzo del latte di pecora, che nella malaugurata ipotesi, ritornasse al prezzo dei 0,60 euro e anche meno, al litro“. Nessuno gli ha dato ascolto.
Ma allora di chi è la colpa?
E’ facile dare la colpa al mercato o alla distribuzione. Le colpe sono da ripartire tra i diversi attori della filiera. Sicuramente i Consorzi sono tra i principali colpevoli perché non hanno vigilato sulla produzione, ma bisogna registrare che molti allevatori hanno dei sistemi di produzione altamente inefficienti e il loro numero è aumentato a dismisura inseguendo quella che molti avevano definito una “bolla” di crescita del pecorino, che poi si è sgonfiata.
E’ vero che il mercato lo fa la distribuzione, ma bisogna considerare che il 60% del latte lo trasformano le cooperative di allevatori, che nel cedere a prezzi stracciati sono vittime e nel contempo carnefici.
Come evidenziato da Francesca Matta su Linkiesta. “Si continua costantemente a sforare le quote imposte, anche perché le multe per chi sfora la quota sono ridicole (0,16 euro al kg). Ciò significa che quando il prezzo del formaggio scende per via della sovrapproduzione, per le cooperative di allevatori inizia la gara per svendere prima il latte alle aziende che trasformano. Questo genera un sistema vizioso, per cui le industrie, che conoscono molto bene questo meccanismo, si aspettano puntualmente un prezzo a ribasso.”
E poi come sempre ci sono i furbetti…
L’allevatore Piero Sanna, sulla pagina Facebook ‘Pastori di Sardegna’, ha posto una domanda: “Il volume di pecorino romano prodotto dai caseifici è congruo con i litri di latte ritirati e con il numero delle pecore degli allevamenti affiliati?” Sanna si chiede ancora: “Il latte trasportato (nell’Isola) con autobotti dall’est Europa per cosa viene usato?”
Quali sono le soluzioni per salvare il latte ovino e il pecorino sardo?
Partiamo col dire che i sussidi e la proposta di ritirare il formaggio dai magazzini non sono una soluzione, ma un aiuto nel brevissimo termine che non risolvono il problema di fondo. Lo Stato non si può sostituire al mercato. Senza una ristrutturazione dell’intera filiera tra un anno ci ritroveremmo esattamente allo stesso punto.
I consorzi, oltre ad una funzione di tutela e controllo, sull’esempio dei colleghi della pianura padana, devono lavorare sulla programmazione produttiva e sulla differenziazione dei canali commerciali e sulla ricerca di nuove vie di sbocco. Abbiamo confrontato i pareri degli esperti e scoperto che ci sono almeno 7 soluzioni concrete ed applicabili subito per uscire dalla crisi definitivamente.
Ne parleremo nel prossimo articolo…
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