Sull’onda emotiva della sostenibilità ambientale e della richiesta di materia prima italiana da parte dei consumatori, sempre più produttori di pasta dichiarano di avere come obiettivo di produrre pasta 100×100 made in Italy. Ma questo è praticamente impossibile per almeno 2 buoni motivi.
La verità sulla pasta 100×100 made in Italy – parte 1°
1 piatto di pasta su 4 mangiati nel mondo (e circa 3 su 4 in Europa) è italiano. Chi compra pasta italiana, anche noi italiani, ignora che almeno il 30% della materia prima utilizzata non è italiana. Ma allora la pasta che mangiamo ed esportiamo è 100×100 made in Italy o no?
In una recente intervista sull’inserto Economia del Corriere della Sera, Filippo Antonio De Cecco, terza generazione degli storici pastai abruzzesi, ha dichiarato che il pastificio De Cecco importa dal Nord America “una parte importante del grano” che lavorano per fare la pasta. Una dichiarazione che ha lasciato senza parole molti lettori, in netta contro tendenza rispetto ai tanti pastifici che dichiarano sulle confezioni di usare solo grano italiano.
Tendenza che si è registrata negli ultimi 18-24 mesi dove alcune aziende, sulla falsa riga di quanto successo per l’olio di palma, sono pronte a fare annunci e promesse per rassicurare una larga fascia di consumatori italiani che sono convinti che il grano estero sia di pessima qualità, sia tossico e per giunta ricco di glifosato. Peccato che, come conferma lo stesso De Cecco, abbiamo una carenza di grano almeno del 30% rispetto al nostro fabbisogno produttivo e non tutto il grano prodotto in Italia è di qualità.
Coldiretti, dal fronte pro-agricoltori continua la sua battaglia sulla trasparenza e ha raccolto 1,1 milioni di firme di cittadini europei per chiedere alla Commissione Ue di estendere l’obbligo di indicare l’origine in etichetta a tutti gli alimenti. Ma l’associazione dei pastai italiani Aidepi già in passato espresse forti perplessità su questa battaglia secondo il principio che l’origine non è di per sé sinonimo di qualità e che con questo argomento si rischia confusione nella percezione del consumatore.
Alla domanda dell’intervistatrice del Corriere, Daniela Polizzi, sull’obbligo di citare in etichetta la provenienza del grano, il presidente del pastificio De Cecco ha risposto mettendo in fila una serie di motivazioni che fanno riflettere: “Metteremo a breve le etichette con l’origine della materia prima perché siamo sollecitati dall’autorità Antitrust. Ma il punto non è quello. Primo, l’Italia è un Paese importatore. A fronte di un fabbisogno di circa 60 milioni di quintali di grano duro, 40 sono prodotti e 20 importati. De Cecco ha un accordo importante di filiera in Italia con 1.200 agricoltori su 15mila ettari, tra Abruzzo, Marche, Puglia e Umbria, e 400 mila quintali di grano. A loro riconosciamo un premio di 3 euro rispetto al prezzo di riferimento di Foggia, purché ci garantiscano il 14,5% di proteine. E qui arriva il secondo punto. Il grano della California, dove De Cecco compra da 30 anni, e dell’Arizona ha una qualità migliore perché i campi sono ricchi di azoto e sono meno sfruttati rispetto a quelli italiani.”
Capiremo mai qual è la verità sul miglior grano per fare la pasta 100×100 made in Italy?
Proviamo anche noi a mettere in fila gli elementi per comprendere quali sono i due principali motivi per cui come sistema paese siamo obbligati a importare grano dall’estero.
Partiamo col ricordare che l’Italia è il primo paese produttore al mondo con circa 3,36 milioni di tonnellate di pasta ed è anche leader mondiale nella classifica dell’export con 1,9 milioni di tonnellate (per fortuna la pasta è scampata ai recenti dazi USA).
In 20 anni la produzione italiana di pasta è più che raddoppiata, ma la superficie dedicata a grano duro è rimasta più o meno la stessa, anzi dati recenti dicono che è anche un po’ diminuita. E anche se le rese sono almeno triplicate (da meno di 1 tonnellata a 3-4 per ettaro) e la qualità è aumentata moltissimo rispetto al passato, l’Italia non ha mai prodotto sufficienti quantitativi di grano per soddisfare ciò che il mercato richiede. Infatti, la produzione media di grano italiano di 4 milioni di tonnellate annue è sufficiente a coprire solo il 70% del fabbisogno necessario (circa 6 milioni di tonnellate annui). Il principale fornitore di grano duro dei pastifici italiani è l’Italia, da dove i pastai acquistano il 60-70% del fabbisogno (in pratica, tutto il grano duro nazionale, mantenendo di fatto in vita la filiera). Ma il restante 30% o il 40% del totale a seconda dell’annata siamo obbligati a importarlo. I dati appena pubblicati registrano che la produzione 2018 è scesa sotto le 4 milioni di tonnellate, una riduzione del 5%.
Il secondo motivo per cui importiamo grano dall’estero è perché non sempre e non tutti gli anni il grano italiano raggiunge gli standard qualitativi previsti dalla legge di purezza (Legge 580/67). Lo stesso Ministero delle Politiche Agricole in una nota relativa alle analisi del Crea (riferite al periodo 2011-2016) informava che solo il 35% del grano italiano ha contenuto proteico superiore al 13% e circa il 30% del grano duro prodotto in Italia è di qualità medio bassa, con un contenuto proteico inferiore al 12%, che lo rende non adatto alla pastificazione. Anche perché bisogna sapere che durante la trasformazione da grano a semola si perde circa 1 punto percentuale di proteine.
Perché il grano italiano ha mediamente un tenore proteico più basso?
La spiegazione la fornisce il professor Raimondo Cubadda, docente di Tecnologie Alimentari all’Università del Molise.
“I fattori che interagiscono negativamente sul contenuto in proteine del grano duro nazionale, in particolare su quello delle regioni meridionali, sono:
- la brevità del ciclo che va dalla spigatura alla maturazione fisiologica della cariosside che spesso a causa dei venti caldi e dell’insufficiente umidità del suolo comporta un precoce essiccamento delle foglie con conseguente interruzione della funzione clorofilliana e pertanto dell’assorbimento di elementi nutritivi e accumulo delle proteine di riserva (gliadine e glutenine);
- l’impoverimento del suolo e lo sviluppo di patogeni a causa della pratica del ringrano
- la mancanza di una razionale rotazione delle colture;
- la scelta di cultivar inadeguate dal punto di vista qualitativo
- l’inadeguatezza delle tecnologie agronomiche, inclusa una razionale concimazione.”
Occorre anche considerare che la mancanza di uno stoccaggio differenziato non permette di selezionare le partite di grano di elevata qualità. Diversa è la situazione all’estero dove le partite di grano commercializzate sono omogenee e selezionate per tipologia.
Da dove viene il grano importato per fare la pasta italiana?
Nel 2017 proveniva soprattutto dal Canada (34%), dalla Francia (13%), dagli Usa (11%) e dal Kazakistan (10%),
A causa delle questione del residuo di glifosato, per la prima volta tra agosto 2017 e luglio 2018 le importazioni di grano dal Canada sono crollate di oltre il 50%. E questo nonostante le previsioni funeste di Coldiretti circa il trattato internazionale che sancisce un accordo commerciale di libero scambio tra Canada e Unione europea, meglio conosciuto come CETA.
E’ vero che le aziende preferiscono il grano estero perché costa di meno di quello italiano ?
La risposta fa fornisce direttamente Filippo Antonio De Cecco alla domanda dell’intervistatore del Corriere “quanto costa il grano americano? “Circa 35 euro al quintale quello californiano, il migliore, contro i 27 euro di quello nazionale. Solo il 10% della produzione italiana è di ottima qualità. De Cecco compra la metà del suo fabbisogno in Italia”. Quindi il grano italiano costa di meno.
Ma quindi da cosa dipende la qualità della pasta italiana?
Come diceva una nota pubblicità il segreto di un buon piatto di pasta, è la pasta. Non solo il grano!
La qualità della pasta non è una semplice equazione di primo livello, dipende da molti fattori: dalla giusta miscela di grani, dalla percentuale di proteine, dalla tenacità del glutine, dalla qualità dell’acqua utilizzata, dal sistema di trafilatura e dipende moltissimo dalle tecniche e dai tempi di essiccazione. Teniamo presente che la macinazione del grano, passaggio fondamentale della filiera di produzione della pasta, avviene in Italia perché siamo i più bravi mugnai del mondo.
Ecco la grafica con l’identikit del grano buono per fare la migliore pasta al mondo secondo Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane
E come la mettiamo con la sicurezza alimentare ?
L’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane AIDEPI (adesso confluita in Unione Italiana Food) rassicura dicendo che la sicurezza è garantita da stringenti normative comunitarie e da un rigido sistema di controlli nazionali, sia sulla materia prima nazionale, sia su quella importata, cui si aggiungono numerosi autocontrolli dei pastai italiani. Parliamo ogni anno di circa 200 mila controlli sul grano duro e 600 mila analisi sul prodotto finito.
Alberto Ancora, presidente di Agrofarma, gli fa eco affermando che “Il sistema europeo di autorizzazione e di controllo degli agrofarmaci è il più stringente al mondo, se un prodotto fitosanitario è regolarmente in commercio nel mercato Ue, significa che dal sistema di analisi europeo non è emerso alcun elemento concreto che ne giustifichi la messa al bando.”
A questo punto sorgono altre domande: il made in Italy non dovrebbe utilizzare materia prima italiana? Se il grano italiano ha meno proteine e meno glutine come si fa a produrre una pasta che tiene la cottura? Ed infine, tutti quelli che scrivono grano 100% italiano mentono?
A queste e ad altre interessanti domande cercheremo le risposte nella seconda ed ultima parte del nostro articolo.
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