Vino in bag in box, vino in lattina, tutti questi nuovi metodi per contenere il nettare di Bacco da cosa sono dettati precisamente? Moda, nuove usanze, o marketing?
Perché si sente la necessità di sostituire l’ormai acclarato vino in bottiglia con nuovi tipi di packaging? È possibile lasciarsi alle spalle anni di tradizione in favore di metodi nuovi? E se sì, qual è il valore del vantaggio che dovrebbero apportare? In ottica di sostenibilità ci siamo, il vino in lattina offre parecchi vantaggi. Sebbene il vetro sembri la scelta più ecosostenibile, esso impatta sul 30% delle immissioni dell’intera produzione, dal vigneto al consumo, mentre l’alluminio può essere riciclato all’infinito con bassissime emissioni di CO2.
Ci sono tuttavia da considerare altri aspetti, che tengono conto dei nuovi consumatori e delle abitudini di consumo che sono mutate. Di certo i paesi più inclini a spostarsi verso il canned wine sono gli Stati Uniti e l’Australia, ma secondo le stime rilasciate a metà 2020 da Grand View Research, società di ricerca e analisi di mercato di San Francisco (California), il volume d’affari del vino in lattina, a livello mondiale, supererà i 155 miliardi di dollari. I millennials americani sono più inclini a rompere con i canoni del passato e vedono i vantaggi offerti dal vino in lattina in termini di portabilità, quantità da assumere ed anche economicità di prezzo.
Il vino in lattina funziona in Italia?
Il nocciolo della questione riguarda la concezione stessa del vino nell’immaginario degli italiani, che è profondamente diverso dagli altri paesi (che non siano la Francia, ovviamente). In Italia è tradizione, cultura e passione, cose che difficilmente lasciano spazio a modifiche sostanziali. Diversamente nel Nuovo Continente c’è più una spinta verso il cambiamento. Il modo stesso di bere presenta concrete differenze. L’Italia è il paese dove non si beve molto vino, ma lo si beve spesso, con attenzione alla territorialità del vitigno, alla portata da abbinare, o all’occasione d’uso. Gli Americani, invece, ad esempio, non hanno la stessa attenzione a tutta la sfera esperienziale legata alla fruizione di vino. Soprattutto i Millennials, che hanno consumato 159.6 milioni casse di vino nel 2015, il 42% sul totale del vino bevuto negli Stati Uniti, hanno la propensione a vini innovativi e poco costosi.
Dove nasce il vino in lattina?
Strano a dirsi ma il paese di origine del vino in lattina è l’Italia. Ebbene Giacobazzi, un produttore di Modena, verso la fine degli Anni 70, ha chiesto ufficialmente allo Stato l’autorizzazione a vendere vino in contenitori alternativi. Nel 1982 il ministero ha acconsentito all’utilizzo del Tetra Pack, il PET e le lattine. Altri brand, tra cui Medici, Cavicchioli, Folonari, Ramazzotti, Campari, Moretti, si sono adeguati e hanno posto in essere la propria produzione di vini in lattina. A causa di una lenta burocrazia per quanto riguardava la distribuzione delle lattine sul mercato c’è stato un calo della domanda.
Sebbene ci siano ancora brand italiani che continuano la produzione, come ad esempio la cantina veronese Zai (acronimo di Zona Altamente Innovativa) che approda sul mercato con una linea di sei “canned wine”, inseguendo una tendenza diffusa nel Nord America e in alcuni Paesi dell’Europa continentale, come Polonia e Ucraina. Sei referenze, tra vino bianco e rosso fermo e frizzante, che saranno presenti prossimamente sia in enoteca che nei canali della Gdo italiana, ma la distribuzione è già stata avviata nei principali mercati esteri.
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Restano i dubbi relativi alla qualità del vino
Di fondo, un vino già buono, lo è prima di finire in lattina, e non è certo quest’ultima ad agire sul prodotto in sé, anzi. La lattina è un ottimo conduttore di temperatura, salvaguarda aromi e sapori e, inoltre, garantisce una buona protezione dai raggi solari e luce in genere, grazie anche ad un rivestimento interno che ha però, una durata variabile tra i 6-12 mesi. È impensabile che un Barolo possa quindi invecchiare in lattina.
Previsioni?
Stando ai dati del 2019 le vendite di vino in lattina registrate dalla Nielsen nei canali off-premise ammontano a 70 milioni di dollari in un anno. Emerge che vendite di vino in lattina interessano soprattutto i consumatori più giovani, gli stessi che secondo altri studi sono poco interessati al vino. A ciò si va ad aggiungere la praticità del packaging in lattina in considerazione del boom del food delivery. La possibilità della monodose e di includere il vino nel sacchetto con l’ordinazione, sembra un ottimo compromesso.
Sembrerebbe anche che molti paesi stiano promuovendo questo escamotage per ridurre il problema dell’alcolismo, soprattutto per le generazioni più giovani. Tuttavia c’è anche il rischio che avvenga il contrario: una lattina di vino da 375 ml corrisponde pressappoco a due bicchieri, ma ciò non toglie che è facile bere anche due lattine avendo la sensazione che non si stia comunque trangugiando un’intera bottiglia.
Insomma ci sono i pro e ci sono i contro, ma la praticità di tirare su una linguetta, può essere paragonata allo stappo di una bottiglia di vetro?
Quello tra gli italiani e il vino è un rapporto che si basa su una soddisfazione dei sensi, su una serie di attimi precisi che danno gratificazione, non solo al palato, ma prima agli occhi. La bottiglia di vetro, con la sua sensualità, la gestualità mentre si estrae il tappo di sughero con un tire-bouchon, il rumore stesso al momento dello stappo, l’immagine del vino che dalla bottiglia si rabbocca in un calice, potranno mai essere paragonati al sollevamento di una linguetta d’alluminio?
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